La dottoressa Storti tornò a sedersi dietro la scrivania e
prese ad occuparsi di altri incartamenti.
Bruto prese Katia per un braccio e la spinse fuori dalla
stanza. Nell’anticamera la ragazza raccolse il suo bagaglio e quindi si avviò per
il lungo corridoio, quasi rincorrendo il passo spedito del suo carceriere.
Raggiunsero l’atrio principale e ancora una volta Katia poté vedere le altre
ragazze. Alcune alzarono il viso e la guardarono. Altre camminavano con gli
occhi bassi scortate dalle guardiane. Katia provò un moto di rabbia quando vide
Elvira che accompagnava un’altra ragazza, tutta tremante e ad occhi a terra,
nell’ufficio della direttrice.
Una volta nella sua stanzetta, Katia dovette indossare la
divisa grigia del riformatorio. Sedeva nella piccola cella fissando la parete.
Si sentiva molto infelice e avrebbe voluto qualcuno con cui parlare.
Così passarono i giorni. All’ora di pranzo veniva prelevata e
accompagnata nella sala comune, ma subito veniva ricondotta in cella. La porta
era sempre chiusa a chiave, l’orribile suono metallico della serratura le
risuonava dentro le ossa. Il terzo giorno, mentre Katia giaceva fissando il
soffitto, udì dei passi che si avvicinavano alla sua cella. Si alzò di scatto,
sperando che quello fosse il giorno tanto atteso in cui sarebbe stata
reintegrata nella comunità. Quando la porta si aprì, il suo cuore ebbe un
sobbalzo. Elvira e l’altra donna comparvero sulla soglia come due inviate dal
demonio. Katia si ritrasse sulla sua brandina, raccogliendo le ginocchia al
petto, in atteggiamento di difesa.
“Andiamo, Katia. Non essere incorreggibile. Non vorrai
sperimentare i nostri trattamenti per le ragazze difficili…”, disse Elvira,
afferrandola brutalmente per un braccio e trascinandola giù dalla branda. Katia
cercò di divincolarsi, ma abbandonò ogni resistenza appena l’altra donna la
colpì violentemente con un ceffone in pieno viso.
“Forse ha bisogno di Bruto per calmarsi un po’!”, suggerì
Elvira, spingendola fuori dalla porta. “La direttrice ha ragione. Ha bisogno di
un paio di lezioni ancora”.
La spinsero lungo il corridoio. Katia teneva gli occhi a
terra, lasciandosi trascinare in silenzio finché raggiunsero una piccola porta
all’estremità delle lunghe scale che portavano giù, nello scantinato. Elvira frugò nella tasca per cercare la
chiave. “Entra!”, fu l’ordine perentorio.
Katia fu spinta dentro e portò istintivamente le mani
davanti. Era buio, tremendamente buio, l’unica luce arrivava dall’esterno.
C’era un intenso odore di umidità che le fece arricciare il naso. Si guardò
intorno strizzando gli occhi. Quando Elvira accese l’interruttore, Katia
boccheggiò. Strumenti di ogni tipo erano appesi alle pareti. Voltandosi, con la
voglia di scappare, vide che chiudevano la porta.
“Togliti i vestiti. Il tuo amante sta per arrivare e vuole
trovarti già pronta”, disse Elvira con una smorfia beffarda. Era facile
sfilarsi la divisa. Forse era stata studiata apposta, così avrebbero potuto
violentarla, picchiarla, fare di lei quello che volevano, senza perdere troppo
tempo a denudarla.
“Brava! Vieni qui sotto il palo”, le ordinarono.
Katia vide un palo di legno lungo un paio di metri che
pendeva orizzontalmente dal soffitto, attaccato a una puleggia. Evidentemente
si poteva alzare e abbassare a volontà. Lentamente Katia si mosse verso il
punto indicato da Elvira.
“Adesso ti prepariamo per il tuo innamorato. Sarà contento
del nostro lavoro”, aggiunse una delle due ammiccando alla compagna. La direttrice
ci ha informate che tu sei un caso speciale. L’avevamo capito fin dal primo
giorno”, disse Elvira facendo cenno a Katia di alzare le braccia. Lei fece come
le avevano ordinato, lasciandosi scappare una breve risata isterica. Si sentiva
strana in quell’assurda, orribile situazione. Elvira era salita in piedi su di
una sedia e stava legando i polsi della ragazza alle estremità del palo con due
cinghie di cuoio. Strinse i legacci con forza fino a strapparle un grido di
dolore. Ora le sue braccia erano aperte, come in croce. Katia sentì una fitta
all’articolazione delle spalle e mosse la testa per cercare di allentare la
tensione.
“Apri quelle gambe!. Sappiamo già che sei brava a farlo”,
disse Elvira.
Katia arrossì di vergogna. Sembrava che tutti fossero al
corrente di quello che era successo. Poteva facilmente immaginarsi Bruto che
raccontava in tutti i dettagli cosa le aveva fatto e come lei aveva reagito
alle violenze, col suo corpo che silenziosamente ne implorava ancora di più. A
questo pensiero si sentì ammantare di vergogna. Se avesse potuto, sarebbe
scappata all’inferno in quel preciso istante.
Le stavano stringendo ancora di più i legami ai polsi, poi
la costrinsero ad aprire le gambe. Katia abbassò lo sguardo e vide due anelli
di ferro inchiodati al pavimento, ognuno con una corta catena. Le catene
terminavano con delle larghe strisce di cuoio a cui le due guardiane fissarono
le caviglie della ragazza, legandole strette.
“Ahi, mi fa male! Sono troppo strette. Non potete allentarle
un po’? Per favore!”.
Elvira si voltò di colpo e schiaffeggiò Katia duramente. “Per
lasciarti scappare? Non hai alcuna possibilità. Sono strette e così rimarranno
finché non avremo finito”.
Elvira controllò i legami, poi mosse l’argano.
Quell’orribile strumento doveva essere stato costruito moto tempo prima, pensò Katia,
ma funzionava ancora fin troppo bene.
“Oh, no, no. Basta!”, urlava la povera vittima mentre
sentiva tutte le membra in tensione.
Elvira non diceva nulla, continuava a girare la manovella
che faceva sollevare il palo sempre più in alto. Katia scosse la testa da un lato
all’altro con gli occhi spalancati dal dolore. Sentiva i muscoli delle braccia
che le pulsavano e i tendini che si stiravano dolorosamente, mentre il cuoio
dei legacci le tagliava la carne. Le catene cigolarono quando Elvira diede un
ulteriore strattone alla fune. Il respiro di Katia si fece faticoso, il petto
si sollevava e si abbassava facendole sobbalzare i seni, mentre le punte dei
capezzoli si irrigidivano per conto loro.
“Basta, basta!”, implorava, mentre le sue grida si
tramutarono in singhiozzi. Un altro giro di argano. I lacci alle caviglie la
stringevano sempre di più. Katia emise un altro lamento sentendo il cuoio
tagliarle la pelle. Quando finalmente Elvira smise di tirare e bloccò l’argano,
la ragazza pendeva nuda dal soffitto in posizione a X. Braccia e gambe erano
divaricate. Appesa per i polsi e agganciata per le caviglie, Katia era ridotta
alla completa impotenza.
“Adesso non potrà muoversi molto, qualsiasi cosa le faccia
Bruto”, sghignazzò l’altra carceriera. Elvira si accostò alla ragazza e le fece
scorrere un dito lungo tutto il corpo, soffermandosi qua e là, soprattutto
quando l’accarezzò fra le gambe. Katia sentì la pelle delle cosce che si
raggrinziva nell’istante in cui le dita di Elvira penetravano nella sua
fessura.
“E’ proprio calda. Bene. E’ già bagnata e ancora non le
abbiamo fatto nulla!”.
Nulla! Cos’era secondo loro quella tortura, l’umiliazione e
la sofferenza di essere appesa al soffitto? Katia fissava con occhi increduli
quelle due donne sotto di lei stupendosi ancora del loro sadismo. Ci fu qualche
minuto di silenzio. Poi Katia esplose in un altro singhiozzo e implorò
piangendo a dirotto le due donne di lasciarla tornare nella sua cella.
“Sto cominciando ad averne abbastanza di questa lagna.
Diamole una lezione. La dottoressa Storti ci ha dato il permesso”, disse l’altra
carceriera, indicando col capo una piccola scatola grigia in un angolo della
stanza. Elvira annuì col capo e si diresse verso un grande scaffale di legno
accanto alla porta. Katia la osservò in silenzio e rabbrividì quando la vide
tornare con uno strumento che sembrava un bavaglio. Una grossa palla di gomma
era trattenuta ai due lati da spesse strisce di cuoio che terminavano con una
fibbia. Salendo in piedi sulla sedia e torcendole il naso, la guardiana obbligò
la ragazza ad aprire la bocca. Poi le infilò la palla tra le mascelle
ficcandogliela quasi in gola e rigirandola finché non arrivò a toccarle i
molari. Katia scosse la testa in un disperato tentativo di sottrarsi alle dita
della donna. Elvira ignorò la sua resistenza e le fissò la cinghia attorno al
capo, allacciandola alla nuca.
Katia non poté più inghiottire, sentendosi soffocare dal
sapore disgustoso che la gomma le lasciava in bocca. Inoltre non poteva
emettere alcun suono ed era difficilissimo respirare. Osservò le due donne che
si dirigevano verso uno scatolone metallico. Con terrore si rese conto che si
trattava di un generatore di corrente e sentì il proprio cuore battere
all’impazzata. Volevano torturarla con la corrente elettrica! Ne era sicura. Le
avrebbero scaricato la corrente in tutto il corpo e sarebbero state a guardare
la sua agonia.
Katia si dibatté furiosamente, l’idea di quella tortura la
faceva impazzire. Era sempre stata terrorizzata dall’elettricità da quando da
bambina si ustionò un dito infilandolo in una presa. Agitò le catene tirando e
divincolandosi più che poteva mentre i lunghi capelli biondi le sferzavano il
petto. Ma non poteva fare niente. Più si dibatteva, più peggiorava la
situazione, più aumentava il dolore. Il respiro affannoso e disperato faceva
stringere ancora di più i nodi dentro la carne. Il collo e le spalle le
dolevano per la terribile tensione a cui erano sottoposti.
Katia affondò i denti nel bavaglio di gomma, e si ritrovò
costretta ad osservare le due donne che dipanavano una matassa di fili
attaccati alla macchina. Alcuni di questi terminavano con delle ventose, altri
con pinze. Elvira sollevò uno dei fili tendendo la pinza davanti agli occhi
terrorizzati di Katia.
“Sai a cosa servono queste, cara? Sai cosa ti faremo?”,
sottolineò perfidamente.
Katia scosse la testa, col viso contratto dalla paura. Non
voleva saperlo. Elvira aprì la piccola bocca dentata e l’appoggiò al seno
destro della vittima. Il contatto col metallo la fece rabbrividire. Poi, con uno
scatto improvviso, la morsa si strinse sul capezzolo turgido.
Katia distolse il viso, mordendo il bavaglio e tirando
selvaggiamente i legacci. Se solo avesse potuto liberare un braccio per
togliere quell’orribile cosa che le mordeva il seno! Ma le cinghie erano
fissate saldamente. Le lacrime cominciarono a scorrerle sul viso, più per
l’impotenza che per il dolore.
Elvira si era accostata all’altro seno e lo stuzzicava con
un’altra pinza. Katia sentiva i piccoli denti acuminati morderle la carne
delicata, poi, in maniera del tutto irrazionale, avvertì una strana sensazione
che le faceva piegare le ginocchia e le distendeva i muscoli del seno.
“Più la lavoriamo e più si riscalda. La direttrice ha
ragione. E’ un caso davvero speciale”, osservò l’altra guardiana indicando il
sesso di Katia che cominciava a sbavare.
“E’ davvero una fornace quaggiù, aspetta solo un bel cazzo…
o qualcos’altro di buono e di caldo che si prenda cura di lei. Ecco com’è,
farebbe di tutto pur di far godere la sua piccola passera!”.
Katia avrebbe voluto gridare che non era vero, ma il
bavaglio soffocava ogni suono. Elvira prese altri fili e attaccò tre pinze al sesso di Katia.
Una proprio sul clitoride, due sulle piccole labbra. Katia affondò
ulteriormente i denti nella palla di gomma mentre il contatto gelido delle
pinze contrastava dolorosamente con il suo sesso che si faceva sempre più caldo
e bagnato. Le due donne infine le attaccarono altri terminali alle dita dei
piedi.
Katia spalancò gli occhi e guardò tutti quei fili elettrici
collegati al suo corpo. Si sentiva come se la stessero preparando per una
esecuzione. L’altra guardiana si avvicinò al generatore e accese lo strumento
girando un interruttore.
“Cominciamo dal livello due e poi saliamo!”, disse Elvira.
Katia pregò silenziosamente di perdere subito i sensi. Ma
sapeva che non avrebbe avuto quella fortuna.
Le piccole pinze dentate mordevano i suoi seni e il suo sesso. Il rumore
della macchina le riempiva le orecchie. Tremava guardando le dita di Elvira che
ora muovevano i comandi dell’apparecchio. Il ronzio del generatore aumentò.
Katia sentì tutti i muscoli che si tendevano. Stava già
accadendo. Sentiva la corrente che arrivava attraverso le pinze. Era come se un
milione di piccoli denti la mordessero dappertutto. E il suo sesso! Le
ricordava la tortura a cui era stata sottoposta il primo giorno con l’idrante.
Il suo corpo si inarcò e cominciò a tremare come se fosse stato esposto a un
gelido vento polare e la testa le si rovesciò di colpo all’indietro.
La sensazione della corrente che le attraversava il corpo,
stranamente, non era del tutto
spiacevole. Tentò di rilassarsi assaporando
il brivido dell’elettricità che le solleticava il clitoride. Un’altra
ondata di liquido le colò dalla figa scivolando lungo le cosce e aiutando la
corrente a diffondersi.
Elvira se ne accorse. “Le piace! Diamogliene di più”, disse
soddisfatta, aumentando la dose.
Il ronzio aumentò ancora. Adesso il formicolio era più
intenso e concentrato. Katia morse il bavaglio per scaricare la tensione frenetica
sentendo che il suo cervello stava per cedere. La corrente la colpiva ora come
una pugnalata, facendola gemere e sospirare, mentre cercava di divincolarsi tra
i legami. Contrasse le dita dei piedi fino a sentirle invase dai crampi. Un
ulteriore aumento di intensità le fece perdere completamente il controllo. Un
getto di urina le scivolò lungo le gambe, mentre le due donne la osservavano
ridendo.
“Sembra abbia toccato il suo limite, per ora”, disse l’altra
guardiana.
“Vedremo. Non credo che perderà i sensi. Prenderà tutto
quello che decidiamo di darle”, disse Elvira spostando l’interruttore ad un
livello ancora più alto.
Katia si sentì come travolta da un camion che andava a tutta
velocità. I suoi seni, il ventre e la fica furono come dilaniati dalle intense
frecciate. Il suo corpo fu tutto un fremito. Elvira aumentò ancora la potenza
spostando la leva quasi al massimo. Katia fu preda di una forza diabolica, le
sue labbra divennero violacee e rivoli di saliva le colavano dagli angoli della
bocca sul mento. Rimase appesa, completamente impotente, aspettando il peggio.
“Diamole un’ultima girata”, disse Elvira.
Furono le ultime parole che Katia udì. Poi sentì un odore di
carne bruciata. Il dolore era troppo intenso. Con un grido soffocato si irrigidì
stirandosi tutta, poi si ammosciò appesa al palo perdendo finalmente i sensi.
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